Nei brani presenti in questa sezione, si è deciso di conservare inalterate la grafia dei vocaboli e la punteggiatura, e di normalizzare gli accenti alle convenzioni tipografiche odierne.
Piacesse anche a Dio, che i giovani volessero e sapessero andar così a testa bassa verso varj purché onesti studj, e impiegar ivi le notti e i giorni: che questo ancora sarebbe una non leggier difesa da molti vizj in quel più periglioso passo della loro vita.
Missiva al letterato friulano Giovanni Artico, conte di Porcìa (1682-1743), datata da Modena il 10 novembre 1721, ma spedita al corrispondente solo nell’aprile dell’anno successivo (dopo varie esitazioni del Vignolese sfociate nel divieto della stampa per il timore che quanto scritto suonasse come eccessivamente autoencomiastico): Lettera inedita di Lodovico Antonio Muratori intorno al metodo de’ suoi studi, a cura di L.V. [Luigi Vischi], in Scritti inediti di Lodovico Ant. Muratori pubblicati a celebrare il secondo centenario dalla nascita di lui, 2 parti in 1 vol., In Bologna, Presso Nicola Zanichelli successore alli Marsigli e Rocchi, 1872, Parte prima, pp. 1-31 (I edizione).
[…] conobbi alle pruove, che l’Uomo, se la Natura gli è alquanto liberale, e se non teme fatica, può far di gran cose.
Ivi, p. 12.
Credo io che l’erudito abbia da aver sempre in capo varie vedute, e varie fila per le mani. Se non può per qualche ostacolo far questa tela, ne lavori un’altra; se non può fabbricar gran palagi, si metta a qualche ameno giardino, adattandosi al luogo, al tempo e alle congiunture, e mirando che non gli fugga di mano il tempo che è cosa preziosa. Alcune opere escono dal più intimo della glandola pineale; altre dalla giudiciosa lettura. Alcune non si possono comporre se non con avere la testa fitta in ricche librerie; per altro bastano pochi libri, ed anche in villa si può faticare. […] Si maraviglia talora la gente oziosa in veder persone di lettere, che non sanno levar gli occhi da’ libri, sempre studiando, e senza perdonarla né pure in villeggiatura. Ve’, dicono, quel buon uomo! ne sa tanto o crede di saperne tanto, e non sa ch’egli è dietro a farsi seppellire prima del tempo. Ma lascino un poco, che ancor noi molto più ci maravigliamo dell’ozio loro, che nulla è utile al pubblico, e può anche essere dannoso all’anime loro; laddove in fine gli onesti studi sono una occupazion degna dell’uomo, et uomo cristiano, ed insieme un pascolo delizioso alla lor mensa.
Ivi, p. 15.
Solea dire un valentuomo, che, se stesse a lui, vorrebbe imporre per legge a ciascun erudito di comporre qualch’opera in vantaggio o gloria di quella città, che è stata sua madre, per pagarle almeno questo tributo di gratitudine. Diceva bene, parlava giusto.
Ivi, p. 23.
Il credito d’un’opera non si misura dalla mole, ma dalla maggiore o minore utilità o delettazione, ch’ella può porgere al pubblico.
Ibidem.
[…] vo’ dir francamente ad ogni persona studiosa che di leggieri andranno a finir male le applicazioni e il metodo di un letterato, s’egli con tanto studiare non istudia nel medesimo tempo due importantissime cose e non le fa eziandio comparire in tutti i suoi libri. Ha egli, dico, da imparar sopra tutto ad essere uomo onorato, e uomo dabbene. Quest’obbligo l’ha chiunque entra nel consorzio de’ mortali, e professa la divina legge di Cristo; ma più debbono attendervi le persone di lettere, al sapere, ch’egli non vivono né scrivono solamente a sé stessi, ma anche al pubblico, e i lor sentimenti ed esempli passano colle lor opere pubblicate ad istruire nel bene o nel male infinite altre persone.
Missiva a Giovanni Artico conte di Porcìa, ed. cit., p. 24.
[…] [il] sodo interno onore dell’uomo […] secondo me consiste in un certo vigoroso amore del vero, dell’onesto, del giusto, e della moderazione, e in un abborrimento al contrario. La buona morale filosofia è quella, che ce ne dà le lezioni, ce ne insegna la pratica, indirizzando i suoi precetti a perfezionare l’indole, se è buona, e a correggerla, se cattiva […].
Ora a questa venerabil maestra de’ costumi necessario è che s’applichi non passeggieramente, ma ex professo, e con istudio indefesso chiunque prende a far l’uomo di lettere. Bisogna studiarla per tempo sui libri migliori, studiarla in sé stesso, e negli altri; e molto più conviene mettere in opera gli avvertimenti in tutti i tempi, luoghi, ed occasioni, di maniera che chi ci sta con cent’occhi addosso, non peni a crederci e chiamarci persone onorate, e quel che più importa, si sia veramente tale. Giudico io, e meco lo giudicheran tutti i saggi, che più vaglia nell’uomo un pregio tale, che quello d’essere gran letterato; perché in fine se il sapere dell’intelletto non è accompagnato dalla virtù dell’animo, facilmente nocerà più a noi stessi, e ad altri, di quel che giovi.
Ivi, pp. 24-25.
Dirò [...] aver io desiderato una volta, che i più valorosi ingegni d’Italia e i più rinomati per la loro letteratura, sparsi qua e là, potessero unirsi tutti in una sola città e con tal comodo accendersi e ajutarsi l’un l’altro a gloriose imprese, e comunicare insieme i lor sentimenti con facilità, senza il dazio gravoso di tante epistole. Penso ora se ciò potesse darsi (e già non si darà mai) che avesse da temersene più scandalo, che benefizio. Al vedere quel che si fa in lontananza, sarebbe un miracolo, che non accadesse di peggio in tanta vicinanza, e in un sito sì stretto, perciocché fin le lepri, animali sì codardi, se s’incontrano troppe al medesimo pascolo, per quanto mi vien detto, fanno le brave, e mettono fuora i denti l’una contro l’altra. Ora che non farebbono poi que’ grandi animali della gloria, cioè gli uomini di lettere, posti tutti in un serraglio e tutto dì gli uni sul volto agli altri? Udii dire un giorno un assai bizzarro proverbio, ed è questo: Che un fiorentino vale dieci veneziani; ma che cento fiorentini non vagliono un veneziano. Cioè tanto è lo spirito e l’attività d’un fiorentino, che sarebbe capace di governare et operare egli solo così bene, come dieci veneziani uniti insieme. Ma uniti insieme cento fiorentini, cervelli tutti focosi, e amanti tutti del proprio parere, men bene faranno, che non fa la posata prudenza d’un sol veneziano, e forse ancora altro non faranno che liti e spropositi. Come tutti gli altri proverbi ancor questo è da credere che patisca molte eccezioni; ma intanto esso può farci immaginare il ritratto di questa ideata repubblica letteraria. Pur troppo allora più che mai si vedrebbe, che il bollor degl’ingegni, la diversità delle sentenze, e l’ostinazione in esse, il credersi, o almeno il desiderarsi superiore agli altri, e il concorrere a’ medesimi premj, o pure al sol premio della gloria, son tutti troppo gagliardi incentivi alle gare et invidie. Succede ciò fra i lontani: or che sarebbe fra i vicini e i presenti? E se questo non si mira spesso nei paesi di sangue mansueto, e di buon cuore, si osserva bene in altri, che producono temperamenti rigogliosi ed inquieti, per non dir di peggio.
Ivi, pp. 26-27.
[...] la Carità dee camminare in molti casi colla Fortezza; altrimenti non sarà Carità, ma languidezza e fiacchezza; e per voler troppo bene al Prossimo si farà del male a lui, e più se ne farà al Pubblico; e una Carità sì timorosa diverrà un assassinio della Giustizia.
Della Carità Cristiana, in quanto essa è Amore del Prossimo, Trattato Morale di Lodovico Antonio Muratori [...], In Modena, Per Bartolomeo Soliani Stampatore Ducale, 1723, p. 227 (cap. XXII).