Un contadino possedeva da qualche tempo un suo asino, a cui avea posto un singolare affetto, sì da considerarlo come persona a lui cara e della quale non avrebbe voluto separarsi mai più. Due o tre volte taluno gli chiese di venderlo; e fu tanto quanto farlo andar sulle furie, né più né meno che se ad un padre fosse domandata la vendita dell’unico suo figliuolino.
Perché l’animale si cibasse d’erba fresca tenevagli nel podere un verde pratello, in sito aprico, dove potesse spaziare e strappar l’erba a sua voglia; di quando in quando imbandivagli la ghiottoneria di una buona biada di fave e crusca; non andava a sagra od a nozze che non conservassegli un pezzo di pane bianco da porgergli colla mano: e spesso compiacevasi di accarezzarlo, lisciarlo, e guardarlo con occhi amorosi. – Ma appunto il guardarlo, il fissarlo attentamente eragli sempre cagione di provare un interno turbamento che si manifestava nell’increspare della fronte, e nell’aggrottare delle ciglia. «Oh! il mio bell’asino, sclamava egli dal profondo del cuore, perché mostri quella ciera di malcontento, di tristezza ineffabile! Che hai, che hai, se un occulto male non ti logora?»
E si affannava il villano, e pensoso andava investigando tra sé d’onde mai la recondita origine del palese decadere della bestia. La quale, in effetto, non avrebbesi creduto mai dalle apparenze che fosse l’oggetto delle tenere sollecitudini del padrone. Il pelo raro, inuguale, non morbido, non lucente; il muso a terra, penzolante come un peso grave e faticoso; il passo lento; molle il masticare del nutrimento; le orecchie cadenti da ambo i lati, senza nerbo, senza vigore; e quello che è peggio, mai un raglio né basso né alto, con cui facesse risuonar l’aria e battere di gioia il cuore di chi amavala tanto.
Le cose procedettero di questo passo un anno e più, tempo nel quale il contadino ogni giorno, pioggia o neve che cadesse, o sole che affuocasse, mandava il suo asino alla città, accompagnandolo esso o qualcun altro della casa, con carico di roba propria e dell’altrui, giacché pel prezzo convenuto trasportava gli erbaggi, le frutta, i latticini e simili mercanzie dei vicini.
Un dì raccolse non so che grande quantità di pomi: voglioso di spacciarli subito, perché costavano oltre l’usato, gli aggiustò le ceste sì bene sulla schiena da caricarveli tutti, poi si mise in via, izzando e pungendo il povero portatore. Costui sbuffava di quando in quando stanco del peso soverchio, ma conoscendo che non sarebbe punto inteso né alleggerito di una paglia, tirò innanzi queto, sudante, colle ginocchia che gli si piegavano sotto, più lento del consueto.
«È ammalato, brontolava il contadino dimenando il capo, perché fame no, non essendogli mancato cibo; mali trattamenti neppure; nessuno oserebbe di torcergli un pelo!»
Mentre ciò diceva seco stesso, lo fece fermare dinnanzi al cancello di un altro podere, forse nell’intento, avrebbero pensato i cuori pietosi, di levargli di dosso parte dell’insopportabile aggravio. Che bel sollievo gli arrecasse, odano i lettori. Entrò per il viale, seco traendolo a forza e repugnante manifestamente di gire colà; arrivato ad un certo punto ricevette un grosso invoglio consegnatogli, che a stento pose sul mezzo del carico, quasi pinacolo sulla torre, e ripigliò la via. Percorsi appena cento passi all’incirca, eccoti il misero animale che stramazza a terra, morto, schiacciato dal peso enorme.
Le urla, le strida, le lamentazioni del contadino echeggiarono lontanamente per quelle valli; non mai la più diletta ed amabile creatura del mondo fu pianta con segni più strazianti di dolore. Si buttò sdraiato nella polvere per alitargli in bocca, quasi volesse comunicargli il suo fiato ed una parte della sua vita.
Accadde che il primo a passare, appena avvenuta la disgrazia, fu un suo conoscente, il quale accorse frettoloso dubitando peggio ancora, cioè che, oltre il morto asino eziandio fosse rimasto malconcio da una caduta.
«Ti sei fatto male?
Non vedi – rispose l’altro – in suono di alta disperazione e rialzandosi – che sventura mi toccò!»
«Ti compiango, e nondimeno ti avverto, che se prendi un altro asino, lo accarezzi meno e lo carichi meno. Ti svisceravi per lui in certe bazzecole inconcludenti, ma poi gli accumulavi sopra tanta roba, che fu miracolo se durò fino ad oggi.»
Oh il mio asino, il mio sventurato asino, continuò a piagnuolare il contadino; che non si corresse né ora né poi del falso costume, sicché ci perdette parecchi asini con danno della borsa e colla fama di crudele guadagnatasi nei dintorni.
Tutto dev’essere regolato in giusta misura; bisogna trattar bene a parole non solo, ma ugualmente a fatti; i fatti sono prova che le parole non suonano vane; e dopo la prima disgrazia che tocca e serve di avvertimento è pazzo o cattivo chi si ostina a rinnovare le cagioni per cui fu colpito.