Nei tempi antidiluviani, quando l’uomo non era apparso per anco sulla terra, gli animali che noi chiamiamo irragionevoli, deliberarono concordemente di unirsi in sociale famiglia, e nominare un capo, un sommo imperante, alla quale altissima dignità elessero il Leone*. Per buona pezza le cose procedettero con ordine maraviglioso e contento di tutti; ma, non saprebbesi per quale ragione, un decreto del principe venne a turbare quella invidiabile quiete, e fu semenza di guerre cittadine, sanguinose, feroci, senza fine, che mieterono a migliaia le vittime, sperperarono ricchezze accumulate nella pace, e distrussero la floridezza del paese.
Erasi la generazione intera degli animali spartita amichevolmente in tribù; quella delle belve abitò i boschi, i monti ed altri luoghi selvatici; quella dei roditori scelse i campi dove crescevano i cereali ed ogni sorta di quercie, di castagni, di nocciuoli, di mandorli; quella dei ruminanti, si raccolse a pascere nella distesa delle pianure e lungo le rive dei fiumi; e di altre che tacciamo per brevità, ciascuna si adattò in sito acconcio a’ suoi bisogni, alle abitudini, alle tendenze, insomma alla propria natura. Il leone, temendo in un lontano avvenire, che ognuna delle diverse tribù stringendosi in sé a poco a poco con legami troppo saldi, non avesse poi a pretendere un reame a parte, bandì una legge improvvisa, colla quale comandò ai carnivori di gire a masticare le biade, agli erbivori di avviarsi alla caccia nelle selve, ai roditori di spargersi nei prati a pascere l’erba.
Supplicazioni e proteste non valsero: si volle che il comando duramente dato, fosse duramente eseguito. A chi ricalcitrò piovvero addosso severissimi gastighi, sicché i timidi ammutolirono dallo spavento e piegarono la testa; gl’indomiti soggiacquero al giogo fremendo e macchinando sollevazioni e vendette. Costoro elessero a capo l’elefante, non de’ più coraggiosi e neppure dei tementi, colosso di natura, forte della proboscide, che male ebbe sempre tollerata la sudditanza sotto il leone. Ad un dato segnale si spiegò lo stendardo della rivolta, e gli ammutinati si raccolsero al di là del fiume, in terreno vario, opportuno a vivere, a munirsi, a difendersi.
Il leone armò fortissime legioni di suoi, chiamandovi i più formidabili, i più agili, i più crudeli de’ suoi fidi; e fece loro facoltà di saccheggi e di carnificine, e larghe promesse di premii, acciò all’appetito del bottino si aggiungesse quello di ritrarne favori e prepotenza.
Accadde che nelle prime avvisaglie tra gli avamposti dei due eserciti nemici, gli scorridori leonini colsero all’improvvista, vicino ad un fiume, la vacca ed il castoro, l’una intenta a pascolare, l’altro ad edificare la sua capanna, e li condussero come prima preda agli accampamenti, per consegnarli a giudizio di guerra come ribelli del loro legittimo sovrano.
Tradotti subito dinanzi al terribile tribunale che doveva sentenziare di loro, si videro a fronte la iena, la tigre, l’orso, il lupo, lo sciacallo e la volpe; giudici i cinque primi, istitutrice del processo l’ultima.
Pare che alla buona e mansueta volpe que’ due miseri inspirassero somma compassione, perché ritirossi con loro in disparte, e con un muso sì pietoso e con voce sì melliflua si fece a loro parlare, che dessi credettero nella loro innocente persuasione, di avere in colei, non chi li accusasse, ma chi fosse per difenderli e per proteggerli.
«Perché mai, loro chiese benignamente, vi trovo dalla fazione degli scellerati? Chi vi sedusse? Chi vi travolse il sano criterio, da indurvi al mal passo?»
«Nessuno, rispose il castoro, ma la necessità delle cose vi ci sforzò. Questa poveretta (accennando la compagna d’infortunio), cibata magramente, smunta di latte ogni dì, fino a spremerne sangue dalle mammelle, orbata dai figliuoli per ingrassarli in servigio della mensa imperiale o per educarli a furiosi tori della guardia del trono, disperata dei pessimi trattamenti, si rifugiò dall’elefante, in cerca di ristoro e di pace. Io affaticato di continuo a costruire con opera industre le mie dimore, io me le vidi sempre guaste, violate dalle soldatesche imperversanti e maligne, senza che mai si facesse veruna ragione alle mie giuste querele. Perciò andai altrove cercando luogo in cui tranquillamente potessi attendere al mio lavoro, per il quale se non accattassi ricompensa od incuoramento, almeno non trovassi sprezzo e persecuzione.»
«Capisco, soggiunse allora la volpe, che riceveste dei torti dai minori ufficiali del governo, e che a giusto titolo avevate ragione di lamentarvene. Ma non per questo vi potete scagionare del grave delitto commesso di togliervi da una leale sudditanza e di aggiungervi alle fila dei sediziosi. No: voi eravate onorati, placidi, attendenti alle vostre faccende, e foste istigati. Via, palesate chi vi ingannò: narrate quali preparativi di difese si fanno dai vostri seduttori, i quali, come vedete, furono causa che vi troviate a sì tristo partito, e se direte il vero, se giustamente vi vendicherete di loro che vi trassero a fellonia, non vi mancherà l’imperiale clemenza.»
I due prigionieri,** a questa proposta, mutarono natura e s’impennarono con alta fronte e voce sicura contro alla insidiosa interrogatrice, e «mai, sclamarono, mai tradiremo chi ci accolse ospitali, chi divise fraternamente con noi il vitto e ci governò con mite imperio. Ci vedrete stremi di forze al vostro spaventoso cospetto, perché le fibre nostre sono deboli e non si sostengono sotto le impressioni del terrore. Ma l’anima non si fiacca, mentre i nervi raccapriccieranno, e noi ci lascieremo sbranare senza un solo lamento.»
La volpe scornata si partì, e andò dal leone per sentire a qual pena volesse che fossero condannati; e n’ebbe in risposta: il castoro a morte per venderne le parti utili; la vacca nelle stalle per cavarne nuovo latte e nuovi vitelli.
* Nell’originale, l’iniziale maiuscola è presente qui, ma non nelle successive occorrenze del termine.
** Nell’originale, questa virgola è assente.