CELEBRI VIGNOLESI

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Il cane della vecchia dama



Fu regalato ad una vecchia dama* un piccolo cane barbone, il quale essendo di fino accorgimento e d’ingegno vivace seppe in breve tempo guadagnarsi gli affetti della padrona, sì che ne divenne la delizia, la gioia. Saltavale in grembo, vi si accovacciava aggomitolato o vi si stendeva in atto di abbandono, leccavale delicatamente le mani e la faccia grinzosa; guaiolavale vicino in sentimento di amore, guardavala con vigilanza gelosa, tenevale compagnia assidua, indovinandone i pensieri e tosto, facendo a seconda de’ desiderii di lei. La vecchia ne gli è grata; onde lo considera come il suo più fedele e più affezionato amico; e lo rimunera con ogni sorta di cure e di riguardi, offerendo a lui il primo boccone dell’asciolvere e del pranzo, comperandogli confetture ed altre squisitezze fino ad indurgliene sazietà; accarezzandolo, baciandolo di frequente, e non mantenendo in servigio od in amistà se non quelle persone che gli dimostrino predilezione. Se tema che sia ammalato, manda per uno dei più reputati medici; se debba fargli imbottire un cuscinetto dove possa adagiarsi, chiama il primo degli artefici a ciò, e gli ordina che scelga le robe più morbide; se voglia farlo tondere,** ricorre sempre dal parrucchiere di maggior grido, vincendo la costoro ritrosia di umiliarsi ad un cane, con larga ricompensa di moneta. Perché non avrebbe a largheggiare di tali lautezze e di tali dispendii al caro barboncino, che tanto si merita e più colle sue grazie e colle sue amorevolezze? Nella primavera presente, verso il mezzo del maggio, avendo cominciato il sole a splender caldo più del consueto, ed annunziando una primavera precoce, la dama credette che non fosse troppo presto di spogliarlo della lunga lana, e il parrucchiere venne incontanente con forbici inglesi, arrotate di fresco, a compiere la difficile e delicata operazione. Il mastro tonditore menò le mani e l’arnese con sì bel garbo*** che la bestiuola non diede cenno di sofferirne; ed aguzzando l’ingegno perché dall’essere tosato ricevesse bella grazia, gli levò tutto il pelo, radendolo a fior di pelle, tranne che gli lasciò un ciuffetto per ciascuna gamba alla giuntura, ne rispettò le orecchie ed il labbro superiore, da cui sporsero e trionfarono due pennacchi orgogliosi che a mo’ di baffi ne resero più arguta, più arrogante la faccia. Nel giorno appresso, inaspettatamente il freddo tornò, con rigidezza quasi invernale. La dama, addolorata per lo stato di nudità del cagnuolo, lo involse subito in caldo pannolano, e lo custodì accuratamente, fino a tanto che un sartore ebbegli tagliato al dosso e cucito un vestimento di fitto tessuto, coperto dal quale non avrebbe più avuto a patire dalla inclemente temperie. «Se non pare un garzonetto (sclamava la dama, ammirando il cagnuolo), con**** quel muso baffuto, sfacciatello, e l’abitino che porta sveltamente, il quale nulla gli toglie alla gaiezza dei moti, ed alla agilità delle forme. Alto!***** su le due gambe! Così va bene. Qua la zampa: cammina! Oh amabile, oh caro!» E impazzata dal soverchio trasporto per il suo cane, volle che gli si facesse a posta un cappellino****** da valletto, glielo collocò in testa, e poi comandavagli di stare diritto, di camminare, di seguitarla alla maniera di un paggio; ed a tutti coloro che capitavano a visitarla, mostrava il miracolo, e loro chiedeva: non lo scambiereste con un furfantello di ragazzo? Sì, davvero! (rispondevano) ha faccia e portamento più d’uomo che di cane. Ripetendosi più e più volte la rappresentazione, la bestiuola che udivasi a replicare tutti i dì la medesima canzone in dialetto nostro ed in francese, linguaggi che comprendeva egregiamente, si andò persuadendo a poco a poco non essere veramente più un animale della specie canina, sibbene appartenere alla razza umana. A suo avviso non rimanevagli altro oramai che abituarsi ad accentuare i suoi latrati e ridurli in sillabe, in parole, acciò che un suo abbaiamento diventasse un discorso; e tanto si scaldò del nuovo concetto******* da sembrargli soverchia qualunque tardanza ad uscire da solo di casa, ed a mescersi in passeggiata cogli altri uomini. Trovato l’uscio aperto, un giorno in cui portava il completo abbigliamento del valletto, se ne scappò a quattro gambe per maggiore lestezza, indi, fuori della porta, si eresse sui piedi deretani, e con qualche stento cominciò la prova. Fatti venti passi era sì stanco da non poterne più; ma non volendo cadere in terra, per rossore, si approssimò ad una colonna, e vi si appoggiò ritto ed impettito a prendere un po’ di fiato. La gente che giva a diporto per quella strada, osservatolo nell’attitudine singolare, con abito in dosso e cappello in testa, fece a riderne festevolmente, a salutarlo per trastullo, ad inchinarlo come persona degna di rispetto; onde lo confermò tanto saldo nella persuasione già ricevuta******** che egli non ebbe più a dubitare del nuovo essere suo. «Sono un uomo, e deggio apparire uomo di qualità, di considerazione, dacché veggomi ossequiato e trattato nel modo che si costuma verso i personaggi autorevoli.» Allor allora, un vispo fanciullino, che si godeva gioiosamente dello spettacolo, trasse di saccoccia una ciambella e gliela gittò, per osservare se, vinto dalla tentazione, si togliesse dalla positura incommoda, e si avventasse all’offa. Il cane indovinò l’intenzione del seduttore, e stette fermo; se non che visto altro cane, che si cacciò in mezzo e lanciossi sul ghiotto boccone, ebbe sì forte dispetto e tale gelosia dell’impertinente********* che perdette la forza di contenersi, spiccò un salto, e andò a contendere di unghie e di denti per la preda rapitagli villanescamente. «Ah! ah! è tornato cane! gridarono ad una voce i circostanti, smascellandosi dalle risa: dalli! dalli!» Inviluppato nella zuffa, confuso ed avvilito dalle grida derisorie degli spettatori, perdette cappello, ebbe laceri gli abiti, e vergognoso se ne fuggì, tornando mortificato presso la sua padrona; lasciata d’allora in poi ogni vana pretesa di comparire ciò che non potrebbe essere giammai. Esso si acconciò nuovamente alle consuetudini puramente di cane; ma la vecchia dama non si corresse dal difetto di presentarlo all’ammirazione de’ suoi conoscenti, col titolo di suo valletto, di largirgli scioccamente ogni maniera di delicature, di tenerlo in conto maggiore che non avrebbe fatto di un figliuolo, accattandosi i biasimi delle savie persone, le quali dicevano a giusto titolo: mentre siamo in obbligo noi uomini di usare benignità e concedere compassione alle bestie, guardandoci di martoriarle per capriccio, di sopraccaricarle di fatica per lucro, non dobbiamo per altro loro profondere quelle sollecitudini e benevolenze le quali sparse tra i poveri ed i sofferenti si convertirebbero in misericordia, in generoso benefizio, in consolazione ineffabile.




* Nell’originale, qui è presente una virgola.
** Nell’originale, qui non è presente una virgola.
*** Nell’originale, qui è presente una virgola.
**** Nell’originale, «garzonetto, (sclamava la dama, ammirando il cagnuolo) con».
***** Nell’originale, subito dopo il punto esclamativo è presente un punto e virgola.
****** Nell’originale, «capellino» (nelle righe successive, tuttavia, per due volte «cappello»). Subito dopo e poco oltre, si utilizza la forma «valetto», all’epoca già desueta, in luogo dell’allora già corrente forma «valletto»; anche perché sul finire della favola troviamo «valletto», si è preferito impiegare dappertutto quest’ultima forma.
******* Nell’originale, qui è presente una virgola.
******** Nell’originale, qui è presente una virgola.
********* Nell’originale, qui è presente una virgola.

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