Dovete sapere che a Vignola c’è un castello medioevale, fatto quasi nero dal tempo, provvisto di torri, di muraglie enormi, di finestroni con inferriate, di feritoie, di scalette segrete, di cancelli e di portoni ferrati.
Questo castello, fabbricato circa mille anni or sono, fu dei Marchesi Contrari, poi passò ai Principi Boncompagni che per lungo tempo dominavano il paesello.
Oggi i Principi Boncompagni vivono a Roma, ma sono ancora proprietari del castello occupato ora dagli uffici del Comune, dalla Pretura e dalle prigioni.
Salendo poi per lo scalone maggiore e passando sotto alle prigioni, si arriva, per un breve corridoio, ad una porticina sulla quale è scritto: “Biblioteca”.
Molti del paese non sono mai stati in biblioteca perché non è aperta al pubblico. Il Comune non ha denari per pagare un bibliotecario e lascia che tanti bei libri restino negli scaffali a coprirsi di polvere senz’essere utili a nessuno.
La biblioteca consiste in un salone antico che prende luce da un finestrone ad inferriata ed ha le pareti occupate dagli scaffali pieni di libri. Dalla finestra si gode lo spettacolo della pittoresca valle del Panaro attraversato da un bel ponte di nuova costruzione che prende il nome da Ludovico Antonio Muratori [1], illustre vignolese.
Nella sala, a sinistra della finestra, c’è una porticina senza imposta per la quale si passa in una cameretta quasi buia dove sono alcune armature antiche, alcuni quadri ad olio sbiaditi e logorati dal tempo, molte stampe di santi e di vescovi provenienti da un vecchio convento di cappuccini e tante altre cose piene di polvere.
Continuando per alcuni corridoi, si arriva ad un’altra sala bella e ariosa che è proprio dentro alla torre maggiore del castello. Nel pavimento di questa sala c’è una bòtola che conduce, per una scaletta buia, in una vecchia prigione umida e tetra.
Questa prigione non è più che una topaia, ma in brutti tempi passati deve aver sentito molti pianti e deve aver veduto impiccare molta povera gente!
* * *
A Vignola abitava Renato, un ragazzetto di quattordici anni che frequentava con buona volontà il ginnasio nella vicina città di Modena.
Durante le vacanze dopo le splendide votazioni d’esame Renato tornava al paesello, presso la sua famiglia che lo accoglieva con festa.
Lo scorso anno, sui primi di Luglio, Renato era già ritornato a Vignola trionfante per la bella promozione che aveva ottenuto alla terza classe ginnasiale e voleva stare qualche giorno in completo riposo.
Un giorno, verso sera, uscì a passeggio tutto solo. Camminò un poco sul ponte guardando il castello, ma si annoiava. Allora gli venne una strana idea: si ricordò della biblioteca e di un bel libro di favole che il babbo gli aveva indicato alcuni mesi avanti.
Senza perder tempo, andò in ufficio dal signor Segretario. Lo trovò che stava per uscire e, col miglior garbo, gli disse:
– Signor Segretario, permette che faccia una breve visita alla biblioteca?
Il Segretario rimase un po’ perplesso, poi disse:
– Veramente è un po’ tardi, e poi fra mezz’oretta io devo partire per Modena.
Renato avrebbe dovuto capire e non insistere, invece aggiunse:
– Ma non mi tratterrò che un quarto d’ora, poi, se lei mi dà la chiave, io apro e glie la riporto subito; tanto la serratura è a scatto automatico e, quando uscirò, potrò chiudere senza bisogno della chiave.
Il Segretario esitò ancora un momento e poi, siccome era amico del padre, e sapeva che Renato era un ragazzetto giudizioso, gli diede la chiave.
* * *
Renato non si fece pregare. Svelto come uno scoiattolo, infilò lo scalone che conduce alla biblioteca e, dopo due minuti, era di ritorno e consegnava la chiave al Segretario che usciva dall’Ufficio.
– Fai a modo, sai?
– Non dubiti, Signor Segretario.
Renato risalì lo scalone e si trovò di nuovo davanti alla porta della biblioteca.
Nel castello non c’era più nessuno, gli impiegati se ne erano andati tutti e si sentiva un gran silenzio. Solo alcune rondini stridevano giù nel cortile intorno all’arco di un pozzo che una volta era il pozzo rasoio del castello.
Renato spinse pian piano l’uscio, ed entrò con un poco di paura. C’era un tanfo di chiuso e di vecchiume!
La tavola di mezzo era carica di libracci vecchi rilegati in pelle e pieni di polvere.
Appeso al muro c’era il ritratto di Ludovico Antonio Muratori, nero come il carbone, che sembrava così assorto a contemplare quei libri a lui cari che Renato ebbe quasi paura di disturbarlo.
Si fece coraggio, andò a cercare il libro delle favole, lo trovò proprio allo stesso posto dove era alcuni mesi addietro, si avvicinò alla tavola e incominciò a leggere la favola di Ruggero petto di ferro.
Era tutto intento alla lettura, quando un colpo secco e violento gli fece dare un balzo, mentre si sentì agghiacciare da un brivido di paura. Una ventata improvvisa aveva chiuso la porta e non si sarebbe più potuto aprirla senza chiave.
Renato capì subito la gravità della cosa, si ricordò di essere solo in tutto il castello, gli si strinse il cuore, lo assalì lo sgomento, non ebbe coraggio né di urlare né di piangere, e si rincantucciò vicino alla porta gemendo come un bambino, colla gola stretta e gli occhi spalancati.
* * *
Ma intanto, passati i primi momenti, Renato cominciò a pensare al da farsi: chiamare? Ma nessuno l’avrebbe sentito; non c’era nessuno nel castello; il custode delle carceri stava proprio al lato opposto e non avrebbe udito nulla. E poi, avrebbe avuto il coraggio di urlare? Il silenzio era così solenne che la sua voce avrebbe risuonato stranamente nella sala grande come la voce di tutti coloro che ci avevano vissuto nel passato.
Eppure qualche cosa bisognava fare; Renato pensava con terrore alla notte che si avvicinava, al buio che stava per sorprenderlo, e vedeva già l’ombra delle seggiole e della tavola allungarsi sul pavimento, i colori della parete e del soffitto sbiadire nel crepuscolo.
Si fece un po’ di coraggio e, in punta di piedi (povero piccino, com’era spaventato! aveva persino paura dei suoi passi!), in punta di piedi andò alla finestra per chiamare qualcuno nella speranza di essere udito.
Passavano le rondini in lunghi voli salutando il giorno che moriva; di là dal fiume, il profilo delle colline, con piccoli ciuffi di querce spiccava sempre più nero sul cielo scialbo; l’acqua del Panaro mormorava un riflesso argentino.
Sul ponte passavano qualche birocciaio e qualche contadino coi buoi aggiogati, e Renato, sperando di farsi sentire, si fece portavoce delle mani e urlò:
– Aiutoooooo!... Aiutooooo!...
Ma i birocciai e i contadini erano troppo vicini al rumore dei loro veicoli e non potevano sentire.
Passò una ragazza che andava ad attingere acqua ad una fontana vicina, e sembrò che sentisse; guardò un poco in alto e poi si fermò. Renato cominciò a chiamare col gesto e colla voce accennandole di avvicinarsi, mentre il cuore gli batteva di dolce speranza. Ma fu una breve illusione; la ragazza aveva forse guardato le rondini o, per lo meno, non si era preoccupata del grido che le era sembrato troppo lontano, ed aveva continuato pei fatti suoi.
Intanto il ponte scompariva nel buio sempre più fitto e sulla strada non si distingueva più nessuno.
– Ma dunque dovrò passare la notte qui, solo, aspettando che gli impiegati del Comune mi sentano domani, a giorno fatto? Nessuno verrà a liberarmi da quest’incubo terribile?
Poi lo assalì il pensiero della mamma e del babbo, che si sarebbero disperati per la sua assenza, che già a quell’ora, non avendolo veduto a cena, sarebbero assai inquieti. Pensò che tra poco avrebbero messo a soqquadro il paese per trovarlo, e questo pensiero lo consolò un poco. Forse lo avrebbero trovato… ma come? Nessuno lo aveva visto entrare. Solo il Segretario avrebbe potuto dare indicazioni, ma il Segretario era andato a Modena; l’aveva detto lui stesso. Come mai avrebbero potuto immaginarlo in quel luogo così strano, a quell’ora?
Il buio era già alto. Gli sembrava ormai di essere in una tomba e vedeva con gli occhi della mente la sua mamma piangente; e, non potendo reggere a tanti tristi pensieri, si mise a piangere silenziosamente, a calde lacrime, appoggiato con la testina bionda sulla spalliera di una seggiola.
Pianse lungamente; poi, preso da un brivido di freddo, alzò il capo, guardò fisso nel buio e distinse appena la porta chiusa, proprio chiusa. Allora prese una seggiola, e con dispetto, e con tutta la sua forza la sbatté contro alla porta. Nell’alto silenzio il colpo sembrò così forte che Renato, pure rabbrividendo di paura, sperò che qualcuno s’accorgesse di lui.
Si sentì l’eco del rombo brontolare per le sale attigue e perdersi pel castello vuoto senza trovare risposta.
* * *
Intanto che cosa potevano pensare il babbo e la mamma?! Alle otto la cena era in tavola; la mamma aveva già preparato una lezioncina severa per il ritardatario e si affacciava spesso alla finestra sempre sperando di vederlo. Alle otto e mezza, il papà sedette crucciato alla tavola e mangiò senza parlare mentre la mamma sospirava con dei: Ma!... ma!... e faceva la spola fra la tavola e la finestra. Alle nove il papà si decise di andare a cercarlo:
– Tu sta’ in casa – disse alla mamma – e, se viene, non fare la pietosa, sai? bisogna che si ricordi per sempre di quello che ha fatto.
Uscì, andò da tutti gli amici, nessuno l’aveva veduto, nessuno seppe dargli notizie.
Alle dieci tornò a casa adirato e trovò sulla porta la mamma piangente:
– Nessuna notizia?
Il papà non rispose neppure e tornò indietro. Chiese ad alcuni ciclisti che venivano per varie strade se avevano veduto un bambino così e così; fermò una carrozza che veniva dalla parte del ponte: nessuno lo aveva veduto.
Ma dunque!... ma dunque!...
Erano le undici, tutti andavano a letto, e il ragazzo non era ancora ritornato. La mamma cadde svenuta sul divano, mentre la donna, che aveva camminato fino allora per cercarlo, tentava di farla rinvenire; ma piangeva… piangeva!...
Il babbo cominciò ad impressionarsi e a pensare seriamente che gli fosse capitata qualche grave disgrazia: pregò due amici che andassero a cercarlo in bicicletta per le strade e pei paesi vicini, che domandassero notizie di lui passando per la cartiera, pel mulino, per altri luoghi pericolosi, ma i due ciclisti tornarono a mezzanotte, angosciati, senza nessuna notizia.
* * *
Renato aveva perduta ogni speranza di uscire per quella notte. Aveva forzato la porta, ma si era subito accorto che era inutile. Il portone fortissimo, di noce, non si scuoteva neppure.
Il povero ragazzo non aveva più coraggio di urlare e si era accoccolato in un angolo come un cane avvilito e spaventato, fissando con gli occhi sbarrati la porticina aperta, a sinistra della finestra, più buia del buio, che metteva nella sala delle armature e nella prigione medioevale. Si ricordava di esserci stato un giorno col babbo che gli aveva fatto vedere una trave alla quale s’impiccavano i prigionieri politici. Dio! che paura!... e si ricordava ancora di aver veduto, in fondo alla prigione umida, un vecchio berretto scuro di un prigioniero e delle macchie contro il muro che gli dissero che erano parole scritte col sangue.
Ad aumentare la sua paura s’era sollevato un po’ di vento e gli scaffali dei libri scricchiolavano. Ad ogni piccolo rumore Renato trasaliva e si sentiva una stretta al cuore.
Il tempo non passava mai!
– Don… don… don… don… – suonava la mezzanotte ed il babbo si era deciso di avvertire i carabinieri perché facessero delle ricerche accurate e perché perquisissero una carovana di zingari che era in paese da pochi giorni e che gli dava un tremendo sospetto.
Prevedeva ormai una disgrazia e non sapeva ormai più darsi pace. Aveva tentato, per calmare la moglie, di farle credere che il capo stazione aveva veduto Renato partire per Modena, ma essa non lo credette, anzi le aumentò la previsione di una grave sventura.
Il padre, in preda ad una grande commozione, andò ancora una volta sul ponte.
L’acqua del fiume era assai scarsa e gli pareva impossibile…
– Se provassi a chiamarlo?! –
Allora disperatamente urlò:
– Renato!... Renato!... Renato!... –
* * *
Renato sentì quella voce. Gli parve che si aprisse un lembo di cielo per chiamarlo in paradiso. Non pensò più alla paura, agli impiccati, alle macchie di sangue, al buio; corse verso la finestra come un matto, inciampando nelle seggiole senza curarsi del rumore che faceva e urlò con quanto fiato aveva in corpo:
– Babboooo!... Babboooo!... Babboooo!... Son qui!... Perdonami!... Aiuto!... Ti racconterò poi tutto!... –
Quello che avvenne in quel momento nell’animo del padre lo può immaginare solo chi è padre davvero.
Capì subito la cosa che gli premeva più di tutte, e cioè che Renato non era morto e che poteva urlare e chiamare. Tutto il resto non lo capiva, ma non gli importava. Fra pochi istanti avrebbe riabbracciato il suo bambino vivo!
Questo era tutto!
Cercò di non far capire la sua commozione e urlò:
– Dove sei?... Parla!... Grida!... Grida forte!...
– Sono nel castello!... In biblioteca… solo, non posso aprire la porta!...
– Coraggio!... coraggio!... Ora vengo io e fra dieci minuti sarai fuori; non ti spaventare, sai? Ti porterò dalla mamma! –
Volò a casa a portare la notizia alla moglie che sembrò impazzita di gioia, e corse a chiamare il Segretario comunale.
Il Segretario era andato a Modena, ma la chiave era in Ufficio.
Allora corse a svegliare il donzello del Comune, si fece dare tutte le chiavi necessarie, e, dopo pochi minuti, Renato, piangendo, saltava al collo del babbo e della mamma che lo coprivano di baci, e non sapeva staccarsene, mentre alla scena erano presenti i carabinieri, la donna di servizio e tutti gli amici che avevano prestato l’opera loro nella ricerca.
[1] Lodovico Antonio Muratori: Il più grande storico d’Italia, letterato e poeta, nato a Vignola nel 1672 e morto a Modena nel 1750. [Nota dell’Autore]