Un piccolo fiore dei campi cresceva sul margine di un sentiero, che scendendo per il declivio di una collina metteva tortuosamente alla prossima valle.
In un giorno dell’agosto mirò a passargli dinnanzi vispi fanciulli, vezzose giovinette ed amabili donne che neppure uno di coloro si degnasse di volgergli uno sguardo. Si afflisse della noncuranza e dello sprezzo, e cominciò ad isfogare amaramente il cordoglio tra sé, con lunga querimonia:
«Ohimè! d’onde la vergogna che mi tocca? Perché mi passano vicino al cespo, quasi a calpestarmi, e non attendono a me, se pure non mi dispettano? La mia corolla tinta di un leggiero pavonazzo, s’invermiglia gaiamente alla cima, con iscreziature leggiadre di strie, di spruzzi e di serpeggiamenti ghiribizzosi, che mai i più vaghi da vedersi. Spira da me uno squisito effluvio di gradevole odore, da molcere blandemente ogni più delicata papilla; e qualora tolgasi il paragone della grandezza, io certo non mi reputo di minore beltà di qualsivoglia altro più superbo ornamento dei giardini. Nel mio gambo discorre una linfa, di sapor amarognolo è vero, ma salutifera agli stomaci addolorati per fievolezza: cresco innocente al terreno, non lo smungo, non invado da parassita le piante utili, non faccio il ritroso celandomi agli occhi altrui in luogo remoto ed oscuro; benefico se posso, non rendo il male giammai».
«Ed a che questa disperazione, o mio caro? – interruppelo un insetto il quale eragli volato sopra ed aveva udito tutto il lamento; – a che, martoriarti per la negligenza con cui ti abbandonano gli uomini? Anch’io se ci badassi, non mancherei di buone ragioni per muovere querela, poiché vivo ignoto, quantunque non meno pregievole nelle forme di quegli uccelli e di quegli altri grossi animali, di cui l’uomo più si compiace e che alleva con amore. Se consideri alla gentilezza delle mie membra, alle giuste proporzioni onde sono disposte insieme, alla mirabile armonia che ne risulta, alla sveltezza del corpo intero di prontissimi movimenti, all’aggraziato iridiare delle mie alucce, al brillare degli occhietti, al puntare ardito delle corna, al suono affettuoso, melanconico che ti alletta tanto, della mia tromba, certo che dovresti argomentare, che io dovrei essere oggetto di ammirazione, e tenuto in cima delle predilezioni dell’uomo. Nondimeno potrei io giustamente chiamarlo in colpa se mi trascura? Può desso avvedersi di me e delle mie qualità? Coi sentimenti ottusi, grossolani, può profondarsi fino a discernere le mie fattezze minutissime e godere de’ miei esili suoni? Egli similmente nulla conosce di questo dolce e profumato licore che geme da te in goccioline a lui invisibili e che t’irrora come rugiada; nulla del sugo salutifero che circola ne’ tuoi vaselli; nulla prova della ineffabile fragranza, che vai esalando e colla quale mi chiami da lontano acciò io mi disseti de’ tuoi nettari. Noi piccoli vogliamo essere felici? Amiamoci scambievolmente, contentiamoci tra di noi, raffreniamo le brame delle cose che ci stanno troppo al di sopra o sono per altre nature, viviamo tranquilli nell’umiltà nostra ignorata, e quando la vita ci manchi, spiriamo l’ultimo alito serenamente, consapevoli di aver adempiuto senza intendimenti maligni all’uffizio per cui fummo creati.»
Il fiore non si persuase alle ragioni dell’amico, e ardendo di rabbiosa gelosia appassì avanti tempo, e cadde non appena fecondato, col germe in seno dei futuri granelli che sarebbero stati semenza a nuove piante nel prossimo anno. Così perdette sé ed i suoi nascituri inutilmente, per la strana pretesa, che l’uomo dovesse avere in conto maggiore i pregi reconditi più delle qualità spettacolose, lo squisito più dello stuzzicante, lo spiritale più del massiccio.