Quella vezzosa ed allegra lodoletta che soleva pigliarsi solazzo là nel campo, e giva cantando sempre o si librasse a volo o si posasse a terra, ci fu sciaguratamente fugata [1] e forse non la rivedremo più. Uno di quegli spietati e folli cacciatori che appuntano e sparano l’archibugio contro ogni penna intravveduta nell’aria, la postò e la ferì di un suo colpo, senza nondimeno ucciderla; ella, traendo voci dolenti e [2] sostenendosi come poteva, cercò rifugio sotto alcuni cespugli [3] e sì lestamente serpendovi in mezzo trovò luogo di salvezza, che neppure il cane addestratissimo seppe snidarnela.
Il piombo eruttato dall’arma le piagò una gamba sì da rimanerle sfracellata, né da potersi sostenere al volo nel primo giorno del sinistro per la forza dello spasimo atroce. Nel dì vegnente, rincuoratasi alquanto e temendo nuova e peggiore fortuna se ancora ivi dimorasse più a lungo, dopo aver osservato attentamente all’intorno che qualche pericolo non la minacciasse ed assicuratasi di no, aperse le ali [4] e si diresse verso la solitudine di un suo vecchio amico, il passero solitario, col quale da più tempo non teneva più corrispondenza frequente, ma da cui non ostante era certa di accoglienze cordiali e di ospitalità generosa.
Arrivò stremata di forze, trafelata, coll’angoscia di grandi sofferenze dipintale nell’aspetto [5] e bisognevole manifestamente di pronti soccorsi, acciocché non soccombesse dalla stanchezza e dall’affanno.
«Oh mia buona lodoletta, disse il passero [6] non appena la riconobbe, meno maraviglia mi fa rivederti che non mi apporti dolore lo stato di grande desolazione in cui mi sembri caduta. Che ti avvenne? In qual cosa posso giovarti? Vuoi cibo? Vuoi freschissima acqua di fonte? Vuoi un tepido e morbido nido in cui accovacciarti e prendere riposo? Misero me! hai le gambe sanguinose [7] ed una già smozzicata delle dita! Vieni, vieni; collocati qui, che io tosto andrò a buscarti il necessario per il tuo conforto. E ti porterò anche foglioline di un’erba che quassù germoglia, dalla cui portentosa virtù sanatrice presto presto avrai la ferita rimarginata.»
La lodola tocca dalla pietà fratellevole del passero pianse di riconoscenza: accettò le offerte, si collocò nel nido [8] e si ristorò di qualche cibo semplice e roborativo, che le fu porto; si medicò la gamba [9] e riacquistò il fiato quasi perduto e la voce quasi smarrita.
«Ohimè, andava ripetendo, quanto mai il dolore è cattivo! È insopportabile! Io non sono nata per soffrire; non voglio soffrire; un’allodola non può, non deve mai soffrire!»
«Tu folleggi, mia cara, rispondevale il passero solitario, anche nelle ore delle sciagure. Perché avresti tu ad essere privilegiata al di sopra di tutti i viventi da non soggiacere giammai a’ patimenti?»
«Io fui creata di gaio umore, perché svolazzassi trastullandomi nei prati e nei campi, perché imitassi con vivaci trilli e gorgheggi i canti degli altri uccelli; e fossi delizia di chi si diletta di musica varia e soave; e piacessi ai poeti, i quali componessero i loro inni in mia lode e per mio amore.»
«Fanciullina che tu se’! Dacché in copia maggiore la natura benefica ti largheggiò di sue felicità, ti pensi poi che volesse accumularle tutte su di te [10] e riservare agli altri animali l’eccesso delle sventure? Il dolore, amica, ti visitò, né tu puoi scacciarlo; anzi, [11] quanto più gli ti arrovelli contro, desso ti parrà più crudo, più inesorabile, più lungo.»
«E non si conosce modo adunque di liberarsene? Deh che mi sgomenti!»
«Un modo solo io conosco e provai efficace, ed è la rassegnazione.»
«Che non mi rechi adunque di quest’erba che chiami rassegnazione?»
Il passero sorrise, ma tosto ricomponendosi seguitò:
«Rassegnazione è virtù di tollerare con pazienza i mali della vita, come inevitabili e fatali; sperarne un compenso nell’avvenire; frattanto tranquillarsi nel pensiero [12] che più si sopportino con animo forte, più se ne mitiga l’acerbità e più presto se ne leva l’aggravio di dosso.»
«Io non sarò rassegnata mai, neppure una volta sola in mia vita! Tollerare il dolore, quando punge, strazia, lacera i visceri? Ahi! la mia tormentata gamba! Che fitte crudeli, che fuoco ardente me la martoriano!»
Il passero solitario fu mortificato assai della ostinata e irragionevole pretensione dell’amica di non volersi sottoporre ad una necessità da cui non sarebbesi liberata per quanto si agitasse; attese che si calmasse un tantino di più e, colto [13] uno di quegl’intervalli nei quali il tormento crucciavala meno, si riprovò col discorso di ricondurla a consigli più saggi.
«Conosci tu la storia mia? Forse non appieno, perché sia pregio dell’opera ch’io te la narri. Non mi vergogno a confessarti come in mia giovinezza, uscendo fuori dalla natura della mia specie e traviando dall’educazione ricevuta, io dimostrassi istinti perversi e indegni di me e del mio nobile grado di uccello solingo dal canto soave ed armonioso. Mi piacque la vita bizzarra e sfrenata; il fischiare aspro; il cibo più di carne che d’insetti; ond’io non sognava che i gusti degli uccelli di rapina, e ne ambiva, ne bramava ardentemente la comunanza e l’affratellamento. Mi studiai di aguzzare le unghie ad artigli, di rendere adunco e forte il becco, e di compormi un’aria di volto sì feroce che i miei simili avessero a spaventarsi di me. Non fui stolto o forsennato?»
«Tu sì mite provasti passioni di tale violenza? quasi sospetto che t’inventi una canzone per tenermi svagata.»
«Fosse pure una favola cotesta, che non avrei rimorsi in cuore che mi pungessero dal passato! Spinto dalla frenesia del male, [14] mi cacciai un dì frammezzo alla peggiore genìa di falchi voraci e crudeli che pirateggino nei pelaghi dell’aria, e mi pigliai il diletto di perseguitare con essi alcuni miserelli, i quali stavano a sicurtà di me, perché non mi sapevano rapace, e contro cui percossi di ale, di zampe e di rostro, tramortendone qualcuno, ma non uccidendone perché il potere non corrispose al volere.»
«Mi fai raccapricciare!»
«Pur troppo commisi quell’orrendo peccato, ma tennemi dietro come folgore la punizione. Un nibbio mi calò improvvisamente sul capo e, datomi [15] un colpo fierissimo, attendeva a ripetere il secondo, quando una palla di archibugio lo colse e lo stramazzò. Io rimasi intronato, e simile a pazzo vagai svolazzando per qualche tratto, finché scesi precipitando sopra una rupe e caddi moribondo. Non saprei dirti per quale miracolo mi salvassi; ben posso rammemorare che, tornato [16] in me, tanto patii da vincere ogni imaginare; e che durante quel tormentare continuo ricuperai a poco a poco il senno, mi riproposi di risollevarmi alle abbandonate virtù, di compensare col temperato vivere, coi blandi costumi quello che avessi commesso in addietro di sregolato e di acerbo. Appresi in allora a sopportare pazientemente le molestie, a sostenermi negli affanni, a non conturbarmi di soverchio dalle minaccie e dalle persecuzioni dei cattivi. Il dolore mi fu persuasivo consigliere a voltare al bene le consuetudini del male, guida e maestro ed aiuto a battere la via della rettitudine; ed io lo benedico, e ringrazio il cielo che me lo inviasse medico e salvatore; e, [17] se mi vedi commosso sino alle lagrime, non reputare che sia per ricordanza di avere sofferto, sibbene è per mesta letizia di quel tempo nel quale mi ricovrai alla virtù, passeggiando su gli aculei, incedendo tra le spine e stillando il sangue dal mio cuore.»
(La lodola ha gli occhi gonfi e non può formare parola, e l’altro continua:)
«Il dolore purifica, rinsavisce, insegna il perdono, la dilezione dei nemici, ricompone i vincoli di parentela o d’amicizia interrotti o indeboliti, richiama al loro fine le creature che ne smarrirono la vista. Quando la prima volta mi conoscesti, non ti venne fatto certamente di udire da me un canto più dolce di quello che ti modulo al presente; e io debbo al dolore se, rammolliti [18] i trilli, spianati e temperati i gorgheggi, mi abituai a questa malinconica seguenza di accenti musicali che gli uomini lodano, prediligono e di cui s’inebbriano fino all’estasi. Senza il dolore sarei pur anco un malvagio uccellaccio, spavento e scandalo dei minori e dei buoni, e di un cantare incomposto e spregievole.»
«Quasi mi fai amare il dolore! soggiunse con mesta ironìa la lodola.»
«Amalo non per augurartelo, ma per riceverlo, quando sopravvenga, come fuoco di purificazione, come scuola ed esercizio delle maggiori virtù, come un amico severo che, [19] dicendoti la verità aspramente, si scuote dal torpore e ti richiama a’ tuoi doveri.»
[1] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[2] Nell’originale, «ella traendo voci dolenti, e».
[3] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[4] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[5] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[6] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[7] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[8] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[9] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[10] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[11] Nell’originale, qui non è presente una virgola.
[12] Nell’originale, qui è presente una virgola.
[13] Nell’originale, «più, e colto».
[14] Nell’originale, qui non è presente una virgola.
[15] Nell’originale, «capo, e datomi».
[16] Nell’originale, «rammemorare, che tornato».
[17] Nell’originale, qui non è presente una virgola.
[18] Nell’originale, «dolore, se rammolliti».
[19] Nell’originale, qui non è presente una virgola.