Uno snello nuviletto, in mezzo all’azzurro firmamento, in serena e fresca notte di estate, stette fermo lunga pezza a mirare l’astro gentile che lo inargentava; al quale come ad innamorata sorrideva sì amabilmente, da pensare che perdutolo di vista, sarebbe per il grande dolore disciolto in pioggia o perdutosi in vaganti vapori.
Ma, ecco il crepuscolo, ecco l’alba e la succedente aurora. Raggi splendidissimi spuntano da oriente; luce dorata si diffonde sulla terra; la rugiada brilla; i fiori aprono la corolla; gli uccelli salutano gioiosi il dì che sorge.
E il nuviletto, è oro, topazi, rubini dal lato dove il sole nascente lo ingemma. Guardasi meravigliato, godesi delle bellezze nuove, pompeggiasi, tripudia, voluttuosamente si dirada acciò la maggiore leggerezza de’ suoi atomi gli aggiunga leggiadria e lasci meglio trasparire frammezzo i raggi luminosi; crede già di trasformarsi in una magnifica nebulosa, e pigliar sede fissa ed eterna tra le stelle dell’universo. Della sua luna diletta non si ricorda più; ora gli paiono da scemo i sospiri che le diresse poc’anzi, e la reputa già cosa da meno di sé, un globo di grado inferiore, pianeta di pianeta.
La luna frattanto va sbiadendo ed è in sul nascondersi, mentre si accorge della strana illusione in cui venne lo sgraziato, e piamente compassionevole, ripete con fioca voce: ohimè! nuvilo senza consiglio, finché t’illuminasti col mito splendore del mio disco non avesti a temere di andarne disperso; ma ora così non accadrà; il caldo fulgore che ti invermiglia ti sterminerà nelle infinite regioni dell’aere: tu fra poco non sarai più!
Tali parole non appena furono proferite che il nuvolo ingrato e superbo si dileguò per forza di sole in sottilissima nebbia, e finì senza dar segno di suo vivere, né con una stilla di pioggia, né con un lampeggio di luce che gli fosse propria.