CELEBRI VIGNOLESI

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L’ovo* prodigioso



Una mia vicina maritata da oltre vent’anni sospirava inconsolabilmente per la mancanza di figliuoli e parevale che ogni cosa al mondo avrebbe dovuto condividere con esso lei quel guaio, e che o di qui o di là avesse pure dovuto rampollarle un bambolo almeno, fosse da una pianta o da un macigno. Se visitava qualche studio o museo di scoltura, fermavasi a rimirare con affetto intenso que’ marmi i quali ritraevano fanciulli e giovincelli, in cui col fuoco degli sguardi e coi battiti del cuore avrebbe voluto infondere la vita ond’erano privi, indi pigliarseli seco come respiranti del suo fiato, anime dell’anima sua. Qualche volta usciva in certi propositi strambissimi, che l’avresti creduta fuori di cervello; per esempio, odorando un garofano, piantando un giacinto, collocandosi una gemma in petto, lisciando il manicotto, ricamando una borsa sarebbe caduta sempre nel solito ritornello: «Deh! se potessi trasformarlo in un mio fantolino!»** Un certo dì, toglieva da un paniere per collocare nell’armadio di cucina alcuni ovi di gallina, grossi, freschissimi da covare, portatile in dono da una sua gastalda. Tramutavali ad uno ad uno, con bel garbo, nel timore di non romperli, e sclamava tristamente e pensierosa sul fattole regalo: «Perché***, in cambio di pulcini non mi si potrebbe schiudere di qui un marmocchio di figliuolo?» Non appena ebbe pronunciate tali parole**** che sentì un sussulto forte, replicato, dall’ovo che teneva fra le dita, onde le cascò quasi nel paniere con pericolo di sfracellarsi. «Oh che contiene già il pulcino in sul nascere? E colei mi giurò che furono deposti tra ieri sera e questa mane?»
Sempre nella credenza che avesse ad uscirne il pulcino, per agevolargli lo schiudimento ruppene la punta a colpi delicati, cominciò a levare il guscio a pezzetti e,***** quando ebbelo scoperchiato ad un terzo, vide, trasecolando di maraviglia, alzare di là dentro la sua testolina un omiciattello sì piccoletto****** che, stando rannicchiato, dovette abitare nell’ovo con bastevole comodità. – Portava una camicietta bianca, fermata dalla pellicella del guscio, e dimostrava agli atti intelligenza e franchezza superiori di assai all’età ed alla statura. Si stirò le braccia e le gambe; scosse la sua bionda e finissima peluria che facevagli da capigliatura, e con esilissima vocina strillò sì acutamente da somigliare ad un grillo dei prati.
La donna dapprima non sapeva riaversi dallo stupore; ma presto, riacquistata la consueta prontezza di spirito, lo trasportò convenientemente sopra un morbido strato di cotone, e si fece a considerarlo minutamente e ad ammirare l’armonica proporzione delle membra ond’erane composto il corpicciuolo. Pensò alle comari, che più volte l’ebbero derisa della sua pertinace sterilità, e già si gloriava in se medesima di mortificarle e di avvilirle colla presentazione del suo bambolo, quando pure le sovvenne che forse ne potrebbe tornare derisa e scornata.
«Che meschinello di putto è codesto (pensava dessa che le direbbero); forse è un sorcio spelato, o un coniglio partorito immaturamente? Certo, dopo vent’anni di matrimonio maturasti un frutto degno della lunga aspettazione! Qual è adunque (rifletteva), non converrà ch’io lo mostri, anzi sarò costretta di custodirlo con geloso segreto in una scatolina, acciò non me lo veggano. Oh io l’avrei voluto bello, grande, un fior di garzone, che mi facesse insuperbire a mirarlo, a mostrarlo altrui, invidiatomi dalle madri, desideratomi dalle donzelle.»
Non ebbe appena finito il discorso che quel vivo burattino cominciò a crescere in lungo, in largo ed in grosso ad imitazione di certe figure della lanterna magica, e diventò un gagliardo giovanotto, gaio, snello, di faccia arguta, che saltellava con pazza allegria e danzava intorno alla stupefatta donna, gesticolando, sghignazzando******* e scoccandole baci dalle dita, di guisa che colei, tra la maraviglia, il giubilo ed il nuovo affetto di madre, fu per cadere in isvenimento e per morire di gioia.
Essa si slanciò ad abbracciarlo teneramente******** e stringerlo al seno, serrandolo sì forte tra le braccia da soffocarlo; anzi l’amplesso per essere troppo vigoroso lo compresse, lo ridusse ai termini della piccolezza primitiva, come vescica che si sgonfi, lo schiacciò e stritolò tanto da sentir colei le mani invischiate di un umore glutinoso, attaccaticcio, che colava giù a goccioloni ed a fili. «Ohimè, gridò, è sangue codesto?» Ma guardando più a minuto si avvide che era un misto di bianco e di giallo d’ovo, con odore spiacevole di vecchiume e qualche po’ di corrotto. E così la creazione della sua ardente e bramosa imaginazione le si dileguò dinnanzi, e il fantasima si ridusse alla realtà meschina; in quella maniera, o lettori miei, che succede di certi vostri sogni prodotti da desideri sfrenati, onde scambiate una striscia di lumaca per segnale di ricca miniera di argento, e gridate alla vista di un baccherozzolo fosforeggiante di avere scoperta la sorgente della luce.




* Sia qui sia nell’Indice finale, viene utilizzata la forma «uovo», alla quale tuttavia noi preferiamo la forma «ovo», essendo quest’ultima quella impiegata sempre da Selmi nel testo della presente favola (e, a dire la verità, è comunissima pure in altri suoi scritti, anche di natura scientifica).
** Nell’originale, le parole del «ritornello» non sono tra caporali e si scrive «deh».
*** Nell’originale, «perché».
**** Nell’originale, qui è presente una virgola (fra l’altro, in un caso simile collocato poco oltre, la virgola risulta assente).
***** Nell’originale, «pezzetti, e quando».
****** Nell’originale, qui è presente una virgola.
******* Nell’originale, qui è presente una virgola.
******** Nell’originale, qui è presente una virgola.




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