CELEBRI VIGNOLESI

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Il passero solingo



Una cinciallegra, un passerotto ed una tortora, durante la caldura di agosto,* si misero in viaggio verso un’eccelsa e lontana montagna, dove ciascuno di loro avrebbe trovato il proprio conto; l’una, insetti in alcuni piccoli laghetti circonvicini, e gli altri**, il grano delle messi che tardi maturano colà, e precisamente in quella stagione. Stanchi e trafelati dal lungo battere delle ali, i tre pellegrini si fermarono a riposo sopra di una torretta diroccata che sorge sul culmine del monte, reliquia di antica rocca, che fu nido di predatori, e si disse castello di baroni.
Ivi pure, fino dalla primavera, aveva sua dimora un passero solingo, il quale dessi non videro perché, secondo il suo costume, tenevasi in parte d’onde difficilmente altri lo avesse da scorgere. Dacché si erano creduti soli nel luogo, vennero in grande meraviglia, allorquando udirono il primo modulare di un canto malinconico, col quale l’uccello romito soleva ricordare quotidianamente la storia pietosa delle sue crudeli sventure:
«Un anno è passato dacché mi rapirono con inganno e violenza dalla mia cara famigliola! Prima di quel tempo le mie voci risuonarono giulive per le pendici all’intorno, e l’alpigiano accorse ad ascoltarle con diletto e gioia. Mentre costui godevasi dell’incanto delle mie note, obbliò i gravosi travagli della vita dura, e perfino dimenticò talvolta gli stimoli penosi della fame: ma fummene mai grato! Mi tese insidie e mi colse al laccio: mi vendette ad un padrone di città, ed io fui imprigionato in gabbia e tenuto tra il frastuono e la frequenza delle genti. I miei lai tremolarono dolorosamente per l’aria, e non commossero un solo cuore a liberarmi; chi accorse ad udirmi si compiacque della maestria onde gli sembrò ch’io sapessi lamentarmi. Un dì, trovata a caso aperta la carcere, me ne fuggii e mi riparai quassù, remoto da tutti i viventi; cercai, domandai delle creature mie e non n’ebbi più novella, le quali io piangerò in questa solitudine finché mi basti il respiro.»
La mesta cantilena colla quale il passero narrò delle sue sciagure fu una melodia flebile e lenta, che salì a gradi ad un vago intreccio di accordi in cui il sospiro dell’affanno si disposava col grido del rammarico e col guaire della desolazione. Né la parola basterebbe a raffigurarla all’anima, se non forse assomigliandola ad una ghirlanda di viole e di giacinti intrecciata di spine e deposta sulla bianca lapida del sepolcro di una giovinetta.
Frattanto chi allora fosse stato colà avrebbe giudicato, che le angoscie del passero solingo avessero empiuto di tristezza le roccie, i boschi, le valli all’intorno, i quali parvero allo sguardo oscurati di colore, mutati dal verde al bruno. Ascoltando, sarebbesi creduto che da ogni parte sorgessero lamenti e mormorio di pianto, come un’eco di voci dolenti, quell’eco ultima, la quale ripete in languida cadenza i suoni, e si trasfonde al cuore in gemiti di più profonda compassione.
Oh perché non ebbi io pure la fortuna di esserti ascoltatore, o sfortunato uccello e di vivere un’ora sola nell’estasi del tuo canto! Chi valicò gran tratto del suo mare burrascoso, travolto dalle feroci tempeste e non vide mai brillarsi dinnanzi un raggio di sole ridente; quegli non cerca lo squillo giulivo delle trombe, sibbene la querula modulazione del flauto; non i canti di gloria, sibbene l’inno del dolore.
Dei tre viaggiatori ciascuno fu tocco in modo diverso dalla elegia del misero confratello. La tortora n’ebbe le lagrime agli occhi e tale ambascia da respirare faticosamente; la cinciallegra rimase un tantino mortificata, ma in breve riprese il consueto umore, lieta del canto soavissimo, che portò ai cieli con grandi esclamazioni di meraviglia e di lodi, rallegrandosi seco stessa di averlo udito; il passerotto stette torbido, mesto, amareggiato, colla stizza di un’invidia mal compressa ché non isfogava per vergogna o per superbia.
«E come puoi sorridere e sfavillare di contento dopo la canzone dolorosa? chiese la tortora alla cinciallegra.
«Che vuoi, rispose l’altra, cosa più bella non mi avvenne mai di udire, né io so gustare il bello comunque venga, o da giocondità o da mestizia, senza un vivo godimento ed un’espressione confacevole al mio sentire. Ma tu, compare passerotto, che hai da startene ammusato? Tu sei più che immalinconito; sei cogitabondo, cupo, pieno di disgusto!
«Pensavo con ingrata sorpresa ad ambedue voi, e come amico vostro me ne prendo corruccio. Vi reputai sempre fino ad ora nate e cresciute ad assaporare lo squisito, a pregiare il sublime, e veggovi ora, con mio rincrescimento e sorpresa, perdute dietro una nenia monotona, la quale fu non dissimile dal lugubre ululare dei gufi. Io non mi vanto cantore; nondimeno preferisco il mio pipillare franco, spedito ed allegro a quel noioso piagnucolìo che vi parve e giudicaste un prodigio di accenti musicali. Oggi mi scandolezzaste davvero!»

***Che brutta passione è l’invidia, e come accieca, e come rode i visceri, e come rende indegno di ragione l’essere intelligente! Questo dico io, e ripetono meco i miei leggitori dopo visto il contegno e sentita la risposta del passerotto.




* Nell’originale, questa virgola non c’è.
** Nell’originale, questa virgola non c’è.
*** Nell’originale, la morale di questa favola, affidata all’ultimo capoverso del testo, è compresa fra trattini lunghi e si trova a contatto con il precedente capoverso; tale soluzione grafica si deve molto probabilmente al fatto che la favola termina proprio alla fine della pagina e quindi non ci sarebbe stato spazio sufficiente per inserire una riga bianca a separare la morale dal resto della favola, come invece avviene di solito nelle favole che, all’interno della presente raccolta, si concludono con la morale.




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