Un ricco, padre di unica figliuola, pensò per istruirla, dilettarla, renderla aitante della persona e svelta ed esperta, di condurla ogni anno ad un viaggio, scegliendo luoghi pregievoli per naturali bellezze, i quali nello spirito le lasciassero forte e gradita ricordanza di loro. La prima volta i due viaggiatori peregrinarono insieme per una catena di amenissime colline, a cui prospettava di lontano il mare, e d’onde dall’altro lato stendevasi un fertile e verde piano, di sì rigogliosa vegetazione, che mai il più ricco di ogni maniera di coltura. Nell’anno seguente il padre preferì siti di natura formidabile; dove l’orrido, il selvaggio e lo straordinario si maritassero col grande e il maestoso: alpi gigantesche, dirupi paurosi, sublimi guglie, abissi, frane, ghiacci e nevi perpetue, un’aere di gagliarda freschezza, cadute precipitose di torrenti, alberi secolari, e viste di portentoso aspetto, dinnanzi a cui l’anima trema sbigottita e poi riergesi vigorosa in estatica ammirazione.
Accadde un dì, che dopo lungo e faticoso arrampicarsi verso una delle vette più alte, raggiunsero un poggetto solatìo e difeso dai venti di tramontana, sì che vi predominasse il temperato, e la terra vi godesse le dolcezze di primavera come in clima più mite. Colà fecero sosta e si rifocillarono colle robe che dietro loro portavano le guide; indi la fanciulla diedesi a scorrere lieta e sorridente per quella piacevole verdura, tanto più apprezzata e cara, quanto più vi si trovò all’improvviso.
E tra i fioretti che vi crescevano e godevasi di raccogliere, scorse da un lato una pianta di rosa alpina, che le parve offerirlesi come un gentilissimo saluto di quel poggio; onde venne tosto nel pensiero di farla cavare di là, e mandarla al prossimo paesetto, d’onde avviarla alla propria villa in memoria del viaggio e delle gradevoli commozioni che vi provò. Adempiuto il divisamento, riprese il cammino col padre, e durarono fuori nelle fruttuose peregrinazioni fino all’autunno; nella quale stagione ella rivide la sua villa, dove tosto cercò della sua rosa alpina dal giardiniere. «È là, questi rispose, nell’aiuola a mano manca del palazzotto; né forse saprebbe riconoscerla da sé, o signorina, se io non le l’avessi indicata, tanto crebbe bellissima di rami e di foglie, mercé le mie continue diligenze. Giunse un po’ malconcia, intristita e quasi in pericolo non avesse a campare; ma io, conoscendo di fare cosa gradevole a lei, me le misi attorno, e la curai come figliuola inferma, le rinfusi la freschezza perduta, la trapiantai in terra adatta, e sì bene la salvai, che mi divenne una delle piante più robuste del giardino.»
La fanciulla accorse incontanente a vederla, e con gridi di gioia salutò la vaga rosa che briosamente estolleva un bottone fiorito, a cogliere il quale allungò la mano, e spiccollo. Se non che nello stringere il gambo rimase ferita, mentre non l’avrebbe mai sospettato, e si lamentò di un dito, in cui le si erano infitti alcuni acuti pungiglioni.
«Ohimè, sclamò con disgustosa meraviglia; dunque tu dimorando nel mio giardino tu pure di vestisti di aculei, mentre nelle balze native ti conservi ornata soltanto di leggiadria, e nulla porti che offenda altrui! Quasi ti rigetterei da me per l’inganno fattomi, se pure non ti avessi diletta ancora, giacché mi risovvieni il ricordo della magnifica scena che mi si aperse dall’eminente tua rupe, e sembrami di nuovo esser lassù a respirare quella brezza montanina, ad inebbriarmi della vista di quel puro cielo e di quella vergine natura.»
Così dicendo, muoveva lenti passi, incamminandosi verso una appartata nicchietta di bosso, dove si assise, e dove, fiutando delicatamente il fiore, seguitò il suo ragionamento con miste parole di rimprovero e di affetto.
La soave fragranza della rosa entrandole dentro, le si diffuse per i nervi e la spossò di quella blanda stanchezza che recide le forze e piace: una virtù, un sentimento incognito frattanto le sorsero in cuore, e immaginossi di udire nell’intimo una parola, o meglio un canto arcano, non di strumento musicale, ma simile a quello che piove dalla argentea luce delle stelle in notte serena, e ne raccolse il seguente significato:
«Nata in luogo romito, chi poteva colà attentare alla mia casta innocenza? Però non mi trovasti armata dove non era l’uopo. Ma quì, nel tuo giardino, avrei io dovuto starmi senza un qualche segno del mio ritroso pudore, ed espormi alla taccia di svergognata, o per lo meno di cupida che qualsivoglia mano si protendesse a raccogliermi? Se la bellezza non porta scudo né insegna veruna di sue difese, e sia creduta di facile conquista, essa perde allora il suo pregio e diventa ludibrio della maldicenza, o preda della seduzione.»
La fanciulla rimase in pensiero dopo ascoltata la voce misteriosa, e si rialzò dalla nicchia, dicendo tra sé: ecco come la rosa delle Alpi, senza spine nella nativa dimora, e che se ne guarnisce nei nostri giardini, insegna a noi giovinette con quale gelosia dobbiamo custodirci sempre in timorosa verecondia.
* Nell’originale, figura qui tra parentesi tonde il numero 2, che rimanda al testo della relativa nota contenuta in Note, l’elenco delle note, verosimilmente tutte di pugno dell’Autore stesso, inserito subito dopo la fine dell’ultima favola della raccolta e subito prima dell’Indice. Ecco il testo di tale nota: «Rosa delle Alpi. Questa rosa che cresce nelle Alpi non ha spine finché sia silvestre, ma tosto le mette allorquando si trasporti nei giardini, e si coltivi.» Nell’originale, il titolo reca la forma «alpi», con la minuscola, e la minuscola è presente anche nell’Indice; dato che la forma con la maiuscola risulta quella corretta (e viene utilizzata nelle ultime righe della favola e nella nota appena riportata), qui abbiamo deciso di apportare questa modifica. La «rosa della Alpi» è spesso conosciuta con il nome alternativo di «rododendro rosso» (Rhododendron ferrugineum).