Un passero, un asino ed una marmotta si trovarono a caso insieme sul declivio di una bella ed aprica collina, da cui il tiepido sole della nuova primavera aveva fugata la neve cadutavi durante la gelida stagione. Tra il verdeggiare fresco e rigoglioso dell’erba levavano già la bianca corolla le margheritine; e l’aria,* olezzante e vigorosa, pungeva, dilettava, ed eccitava le forze all’attività. Di colà schiudevasi una magnifica vista di altipiani, montagne ed alpi, quale ancora coll’aspetto del pieno verno, quale rispondente alla virtù risorta della mite temperie.
Il passero pipilava gioioso, saltellante, con un fare sì disinvolto ed allegro, che non mai sarebbe parso altro uccello più contento del fatto suo. E diceva in suo linguaggio:
«Dopo le fatiche passate, nel crudo gelo, quando la terra ricoperta non porgevami più il necessario cibo, è pur dolce ristorarsi a questa splendida e calda luce, e rivedere che i campi e gli alberi si rivestono, e l’aria si ripopola. È larga ricompensa degli stenti sofferti il bene presente, che sembrami tanto più caro e prezioso quanto più da lungi lo sospirai, quanto più mi costò per raggiungerlo in mezzo alle difficoltà del tempo!»
L’asino che ascoltava, interruppe le esclamazioni del passero per appiccare colloquio:
«Assai più di te mi godo le presenti aure primaverili, e la libertà di pascere; oh soave libertà! la quale mi fu tolta per tre noiosi mesi, senza essermi concesso mai di uscire dal mio covile. Schiavo del montanaro, quando la neve si accumulò a dismisura intorno al nostro tugurio, e le strade divennero troppo difficili, fui chiuso nella stalluccia, con magro fornimento di paglia, e mai due passi all’aperto. Nei primi quindici giorni accolsi lietamente il riposo, stanco come ero dall’indefesso portare di ogni più smisurato peso, soverchio al mio potere; poscia cominciai ad infastidirmi della vita monotona; indi sentii molestissima la protratta prigionia; ed invocai con quotidiane grida la venuta dalla stagione migliore, nulla importandomi che per ricuperare la vita libera, avessi anche a sottomettermi alla laboriosa. Piuttosto perire schiacciato dalla soma, che oziare in luogo serrato senza un po’ di terreno nel quale spaziare e divagare a mio arbitrio. Oh lungo, interminabile mi è l’inverno, né vorrei che avesse a ritornare mai più!»
«Hai ragione, rispose cortesemente il passero, e capisco quanto dovesse esserti grave, imaginando quello che avrei patito, qualora m’avessero colto alle panie, incarcerato in una gabbia, e tenutomi dentro per un quarto intero dell’anno. Mi avrebbero fornito alimento a sazietà, egli è vero; ma con quale mio prò? Forse la rabbia della prigionia non me lo avrebbe condito più amaramente del fiele? In cambio; padrone del mio volo, mi condussi dove mi piacque, e dove sapeva di poter buscare qualche granello cariato o qualche bricciola di pane. Che affaticato trarre di ali, talvolta, per un nonnulla od anche per niente! Nondimeno la fame, la stanchezza, le disillusioni non mi nocquero al punto che crederebbesi; perché l’operosità continua mi giovò a rafforzarmi, a rendermi agile, ad acuirmi la mente. Guardami, se non sono pennuto, pingue, lesto e gaio. Viva il lavoro e la libertà! Traghettai tra le brume, le pioggie e le nevicate sì occupato di mie faccende, quantunque con qualche pena, che ora guardando indietro, parmi che il tempo andasse più celere del solito e ne gioisco.»
La marmotta, che stiravasi, sbadigliava e mezzo sonnecchiava, udì i discorsi degli altri due animali, cogliendone a tratti il senso, ma pure quanto bastasse per sapere ad un di presso di qual cosa avessero parlato. Volendo interloquire anch’essa cominciò tra una smorfia per schiuder bene gli occhi e soffocare un importuno sbadiglio:
«Poveretti, quale compassione mi svegliate in cuore! N’aveste a soffrire, non è egli vero, dalla stagione scorsa? Io per lo contrario, più felice, più beniamina della natura, vissi un verno sì quieto, sì disaffannato, che bramerei passare ugualmente tutto l’anno. Quando i primi rigori si fecero sentire, mi addormentai, raggomitolata in me, assopita in sì calmo torpore, che non seppi più nulla, e mi accorsi di non essere morta, se non allorché la primavera venne a ridestarmi: frattanto non ebbi mai bisogno di cibo e non patimenti di freddo. Eccomi ora a ripigliare le mie solite abitudini, godendomi il bello ed il buono, senza necessità di avermelo guadagnato colle angustie e colle torture del brutto e del cattivo! Beata me, amici miei; quanto non dovete invidiarmi!»
«Non t’invidiamo punto, risposero in coro gli altri due; perché non reputiamo né degno, né utile, né glorioso vegetare come facesti tu, alla maniera di una pianta. La vita ci fu data dal Creatore perché la spendessimo in operare; e se alcuni mali ne accompagnano i beni, ciò non toglie che questi non superino quelli, ed in ispecie il bene inapprezzabile della intelligenza. Noi soffrimmo ma sapemmo di vivere; tu nulla soffristi, ma rimanesti simile ad un cadavere mummificato.»
* Questa virgola è assente nell’originale.