Cardellino. E perché gemi sempre o tortora? Nulla mai ti rallegra né ti solleva l’animo dalla mestizia? Nulla può rapirti seco nei campi ridenti della gioia? Neppure l’amore del tuo diletto ti sveglia al gaudio, t’innebbria di letizia?
Tortora. Non sempre poi sono trista come tu credi; e quantunque goda di raro, nondimeno qualche volta io provo i casti e veri godimenti, quelli dell’affetto purissimo dello sposo mio.
Cardellino. Godi e ti rammarichi? Dunque se il piacere ti spira, tu navighi al pianto?
Tortora. Non è ch’io pianga, ma quetamente dico la mia canzone.
Cardellino. La tua canzone è un tubare lento e melanconico, il quale più significa affanno che non esprime contento. Animo, amica! Fatti coraggio e scuotiti. Io vi ti aiuterò: nato di gaio umore vo’ infonderti un tantino de’ miei spiriti, e scoprire il segreto di renderti alquanto ilare. Odi per passatempo qualche mio trillo! Stammi attenta!
Tortora. Bello! dilettevole! allegro! Ma io non posso imitarti. Quando un soave commovimento dell’anima mi gioconda la vita, sento che un sospiro mi sale dal petto; quando la voce dello sposo mi suona da lontano e mi ripete all’arrivo la parola che m’imbalsama come un profumo delizioso, gli occhi mi si gonfiano di lagrime; e co’ miei figliuolini nati appena, quando sfogo il cuore di madre, gli accenti mi si formano queruli e lamentosi, e nel sorridere io gemo.
Cardellino. Quasi quasi mi attacchi il tuo male e mi turbi la consueta serenità.
Tortora. In altri tempi, molti secoli addietro, narrano i nostri vecchi, che anche le tortore gioiosamente cantarono, e vinsero competitori valorosi collo sfarzo sfavillante di note armoniche e vibrate. L’aria, i boschi, i campi risuonarono del vivido e fantastico gorgheggio; elleno si posavano sulla cima degli alti pioppi* e di ogni albero più eccelso, e di là diffondevano all’intorno la gloria dei loro concenti. Slanciavansi con voli arditissimi fino alle nuvole e più in su; fissavano gli occhi al sole senza temerne la luce. Oh in allora le nostre penne sfolgorarono candide e lucenti come argento immacolato; e il piccolo cerchiello che ci abbraccia il collo somigliava ad una leggiadra fogliolina di verbena tortagli gentilmente attorno; e il becco e le gambe pareano tinti del sugo che goccia talvolta dalle ciliegie mature. In allora tutto il mondo ci guardava maravigliato, e sclamavano con enfasi: quest’uccello non è la gemma dei boschi?
Cardellino. Deh che mi narri! Ed in qual modo cadesti poscia nella presente umiltà?
Tortora. Non ci guardammo dai nemici, troppo incaute che fummo. Falchi, nibbi, avoltoi, c’invasero i nidi, ci succhiarono le ova, ci uccisero i pulcini, c’indissero guerra a morte. Più deboli di loro, soccombemmo: onde sopraffatte dall’angoscia, in continui affanni, non più curando le nostre naturali virtù, perdemmo l’uso del canto, scolorammo delle piume, ci riducemmo nello stato in cui ci vedi. L’abito diventò natura; lo spirito rimase inclinato al duolo, sì che quello che letifica altrui si tramuta per noi in dolce mestizia; il nostro tubare forse non ripiglierà mai più colore di voce allegra.
Cardellino. Poveretta! Oggi mi affliggesti tanto colla infelice storia delle vostre passate grandezze che non posso prendermi oramai più un solo minuto di trastullo.
Tortora. Mira quanto è trista la condizione dei miseri; penano essi, e procurano cordoglio agli amici!
Cardellino. Oh s’io non fossi troppo piccolo! Se possedessi nerbo di artigli e di rostro, vorrei vendicarti** e ricondurti alla vita tranquilla e giuliva.
Tortora. Ti ringrazio, ed apprezzo le tue buone intenzioni, quantunque inefficaci. Suole pur troppo accadere che nei piccoli vigoreggia la volontà del bene, e mancano le forze; onde i loro propositi generosi svaniscono in desiderii inutili, od abortiscono in vane e cruenti prove. Nei grandi invece la gagliardia abbonda ma il volere fa difetto, per i potenti assai rade volte sono pietosi agli abbattuti.
* Nell’originale, qui è presente una virgola.
** Nell’originale, qui è presente una virgola.