CELEBRI VIGNOLESI

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L’usignuolo*



Un usignuolo era uscito in busca di cibo, lasciando la sua compagna a covare nel nido, quando tornato videsi dinnanzi un orrendo macello della sua famigliuola. La sposa uccisa, gli uovicini nati testé e frutti del primo amore, rotti, succhiati; opera sanguinosa di una serpe nemica, che da lungo tempo strisciava al piede dell’albero, e più volte erasi provata a salirlo per consumarvi il misfatto.
Rimase tale dal fortissimo dolore, che non poté più muoversi di là; e si posò poco stante sopra un ramicello senza guaire, muto, intirizzito, in sembianza più di morto che di vivo.
Stette fermo a lungo tempo inconsapevole di se medesimo; ma in sulla sera in tramontar del sole fu tocco, tra fronda e fronda, da un languido raggio dell’astro prossimo all’orizzonte; e come sveglio da quella luce temperata, si scosse e intuonò un suo canto, che parve a salutarla. Non canto lamentoso, non querulo, non lugubre; anzi un vivacissimo trillare, uno splendido gorgheggio, con frammezzo una sequenza animosa di melodie soavi, delicate, esprimenti i teneri affetti di un cuore dolcemente commosso. Così egli soleva, nei primi giorni di primavera, chiamare ai casti baci la sua diletta quando se ne innamorò; e in modo somigliante fece gioiosamente tremolare l’aura notturna quando il nido fu costrutto e vi fu deposto il primo uovo.
Sotto l’albero da mezz’ora circa erasi seduto un uomo cogitabondo, pallido e nell’aspetto di persona fiaccata da gravissima cura. Il canto improvviso lo distrasse dalla meditazione; levò gli occhi a guardare d’onde partisse quella nuova letizia; e sospeso, attonito, fisso al ramicello l’ascoltò, se ne inebbriò, e non poté contenersi dallo sclamare: «beato te, delizia dei nostri colli, caro ed innocente uccello, che riempi de’ tuoi bellissimi suoni i luoghi boscosi, e inspiri il contento della vita nella nostra solitudine! Chi più felice di te, tranquillo nelle placide dimore, inconscio dei mali che tormentano l’intelligenza umana! Deh, potessi io trasformarmi in te, che anch’io vorrei con blanda gaiezza campeggiare per le regioni dell’aria, raccogliermi all’ombra della verde frescura, e trillare festosamente a mio proprio piacere ed a letificare altrui! Se t’invidio, amabile uccello!...»
La voce dell’uomo trasse istintivamente l’usignuolo a piegare con naturale sussulto l’occhio acutissimo verso il basso da cui gli saliva, e mirò a faccia a faccia chi proferiva le parole; le quali, sebbene non intendesse, nondimeno comprese che erano a lui dirette, in compiacimento de’ suoi allegri gorgheggi. Tornò in se medesimo: non sapendo più quali note gli uscissero dalla gola, ma per debole ricordanza sembrandogli di aver cantato in gloria ed in amore, sentì il raccapriccio di un’offesa arrecata alla triste memoria della sposa barbaramente assassinata; e, quantunque involontario il canto, n’ebbe una stretta al cuore da restarne soffocato.
Cadde boccheggiante giù ai piedi dell’uomo; il quale raccolse il misero cadaveruccio, caldo ancora, e con grande meraviglia cominciò a cercare in qual parte fosse stato ferito. Nulla vi scorse, per cui in allora, spinto da grande curiosità si arrampicò sull’albero e vide al chiaro crepuscolare, vicino al ramo su cui si atteneva l’uccello, le reliquie della commessavi devastazione, e tutto in istato di avvenimento succeduto da qualche ora.
Ridiscese allora melanconico col nido, coi gusci e colla compagna dell’infelice usignuolo; scavò ivi una buca e ve li seppellì insieme; vi trasportò sopra una zolla di terra su cui cresceva una pianta di mammole; e d’allora in poi, quotidianamente andò ad assidersi là vicino, rammemorando sempre l’accaduto, e considerando come tal volta i più festosi in apparenza siano i più angosciati.



* Abbiamo preferito questa forma, più coerente, utilizzata nell’Indice finale del volumetto; il titolo qui riportato nell’originale, invece, è «L’Usignolo».




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